La luce della Maestranza

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Chiunque vada ai tori sa che l’esperienza della plaza di Sevilla è unica. Al di là dell’incontro fra tori e toreri, e della contingenza che tutto domina, la Maestranza, soprattutto nella sua luce divina ci tocca spingendoci al sublime, all’indicibile. Un piacere, dunque, pubblicare il racconto della prima corrida di Marilea Laviola con le magnifiche foto di Francesco Merini, regista bolognese. Perché ci sono cose che superano i tempi. Momenti che non si possono perdere.

Di Marilea Laviola. Foto di Francesco Merini

In quei giorni gaudenti e solenni di Feria de Abril, le immagini di tori e toreri inondavano locandine, poster, cartoline, calamite e altre cianfrusaglie turistiche, chiedendomi incessantemente un approfondimento antropologico e lo sforzo di essere refrattaria ai tuoni della coscienza (da qualche parte avevo sentito parlare di olocausto animale). In Andalusia tutto è rivelazione e meraviglia, ad aprile più che in ogni altro periodo dell’anno. Cominciavo a pensare alla corrida, sentivo montare il desiderio e l’immaginazione delirava figurandosi una sorta di danza acrobatica, di velluti aderenti e ardenti di intarsi luccicanti, giravolte ammantate da sabbia dorata e fluttuante, colpi di tacco, zoccoli, lampi di suoni, sfiati, al centro di uno spazio circolare, dilatato, sospeso, quasi metafisico. 

Del resto, sapevo che quella curiosità faceva parte del gioco di essere viaggiatori e non turisti. Così, ho accolto la sfida e un venerdì, sgomitando tra una calca di signorotti dai colletti alti, ragazzetti fomentati e ragazzette indifferenti, anziani, nipoti e qualche turista laicamente ingenuo come me, ho acquistato il biglietto a pochi minuti dall’inizio dello spettacolo. 

Appena accomodata sul gradino, ho intuito immediatamente che stava per succedere qualcosa di particolare. Forse dall’incedere roboante e allo stesso tempo ansioso degli spettatori, dal loro frenetico mettersi a posto, chiudere, riporre, cessare ogni azione in attesa di qualcosa di importante, avrei detto “sacro”. Nel frattempo, un susseguirsi di parate ai bordi dell’arena, voci che farfugliavano in spagnolo frasi che non comprendevo, solo una striscia d’ombra sbattuta sulla sabbia che lasciava scoperti al sole gradini, archi e balaustre. Improvvisamente tutto si interrompe, si azzittisce. Entra il primo toro. È una macchia nera inizialmente indistinta, tra pulviscoli di sabbia e il bagliore dei raggi solari. Poi entra l’uomo, un lustro di tessuti fiammeggianti, movimenti sinuosi e sguardo superbo. Sembra di assistere all’apparizione di due esseri sovrumani, forse divini. La lotta ha inizio. 

Il primo toro abbattuto mi fa pensare a quell’estetica del male di cui parla Nanni Moretti nel suo ultimo film, richiamandone come esempio la scena centrale del magnifico Non uccidere di Kieslowski, il momento in cui il giovane Jacek sevizia con una crudeltà perversa e bestiale un innocente taxista, costringendo lo spettatore ad assistere integralmente al massacro. Estetizzare il male, mi sembra che spieghi Moretti, è creare immagini che coinvolgono lo spettatore in maniera inesorabile, intensa, febbrile e tragica a tal punto da fargli sentire la visione come una tortura da cui egli vuole divincolarsi, un’esperienza che non vuole ripetere mai più. Una rappresentazione pur sempre artistica capace di generare un monito acuto insomma, questa è l’estetica del male. 

Mi chiedevo: è questa la corrida? Non ne ero convinta. Neanche la striscia di sangue rossastro, prolungata dalla carcassa dell’animale trascinato dalla pariglia di muli, mi persuadeva a pensarlo. 

Entra il secondo toro e prima di lui un altro torero. Continuo a osservare. 

Non vedo spettatori perché tutti partecipano allo spettacolo, che si consuma quindi al centro dell’arena tanto quanto sugli spalti. Giovani, meno giovani, anziani, famiglie intere, maschi e femmine siedono asserragliati lungo il cerchio di quel tempio che è l’arena, lo chiudono, ora snocciolando affannosamente semi di girasole, ora in apnea. Quando entra il toro, ogni sussulto è bandito, solo gli occhi si muovono e si allargano, il respiro è fermo perché l’incontro/scontro uomo – animale è sacro, è una fusione di corpi e temperamenti che richiede silenzio, partecipazione e raccoglimento corale. In alcune fasi della lotta il pubblico interviene con formule o gesti che mi sembra facciano parte di un codice condiviso e prestabilito. Nessuno assiste, tutti partecipano insieme, allo stesso ritmo. Tutti partecipano al “rito”. 

Continuo a elaborare tutto quello che i miei sensi registrano e mi pare che non sia possibile individuare in maniera tanto semplice chi dei combattenti sia il cattivo e chi il buono, non solo per me ma anche per chi mi sta attorno. Non c’è un antagonista chiaramente connotato. Il coinvolgimento vivo e febbrile del pubblico per le sorti dell’uno e dell’altro, la compassione per il valore, l’ardore, in una parola l’eroismo del combattente, chiunque esso sia, confondono e fondono la natura umana e bestiale dei combattenti. 

Quando l’ultimo toro viene portato via, trascinato dalla pariglia, mi viene in mente l’immagine del toro graziato, l’indulto, me ne ha parlato un tipo accanto spiegandomi cosa accade quando un animale riesce nel miracolo di farsi accordare la libertà con la corrida perfetta. Me lo immagino in una sorta di Eden animale.

Che cos’è la corrida, mi chiedo ancora. Qualcosa di difficile da raccontare e forse ancora poco chiaro. Di sicuro un’esperienza emotiva e intellettuale faticosa perché totalizzante e trascendente. Guardo ancora una volta le poche foto catturate quel giorno, e in una di esse uomo e animale sono fermi, l’uno di fronte all’altro, fissandosi dritti negli occhi. Ho bisogno di bere acqua. Mi sento indebolita e stremata. 

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