La sfida della tourada

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Al chiaro di luna, la gente di Campo Pequeno ammicca e palpita.

Davanti al toro, sono apparsi all’improvviso otto uomini con singolari berretti verdi e rossi. Hanno superato le staccionate, dopo una prova di grande maestria di toreri a cavallo, hanno brindato a qualcuno sulle gradinate e poi si sono disposti in fila indiana davanti all’animale. Il primo di essi lo guarda negli occhi, lo fissa, gli urla qualcosa, lo reclama. L’attacco non si fa attendere, è furente, la spinta impattante è tremenda. L’uomo accoglie la testa dell’animale, chiudendosi attorno a essa, tra le sue corna, mentre dodici braccia gli vanno in soccorso. È a pega il momento culminante della corrida portoghese, ciò che la contraddistingue davvero. Quegli uomini si dispongono davanti al toro bravo e non scappano, restano uniti, l’uno disposto a dare la vita per l’altro, e insieme superano la paura e l’ansia, accettando di fare i conti con ferite, costole rotte ed ecchimosi, in una prova di ardimento che consiste nell’immobilizzare il toro.

La tourada è questa. Si compone di due momenti, a lide a cavalo e a pega, l’una incentrata sulla figura del cavaleiro, l’altra su quella del forcado. Assieme alla embolação, il taglio dei corni del toro, e al divieto di uccidere il toro in pubblico, rappresentano la sorprendente evoluzione della tauromachia nell’estremo lembo della penisola iberica.

L’azione del cavaleiro, che provoca l’animale, si fa inseguire, schiva le sue cariche e gli pianta le bandarilhas, quelle lunghe e quelle corte, richiama molto quella del rejoneo. Non è così, ci sono diverse distinzioni di stile che tendono a sparire oggi. Il primo modo di torerare ha un’origine aristocratica – i portoghesi indossano costumi settecenteschi -, il secondo nasce nel mondo rurale. Il rejoneador agisce per dare la morte al toro e alla fine avrà orecchie e coda, il cavaliere portoghese, invece, non avrà nulla, il suo compito è quello di far muovere il toro, correggerne i difetti e valorizzare le sue qualità, preparandolo affinché l’uomo possa dominarlo nella pega.

Uscito di scena, entrano allora otto forcados (pari all’incirca al peso di un toro), per tentare di bloccare l’animale, ricevendo il suo assalto veemente. Il loro capo, o forcado de cara, senza alcun sintomo di agitazione, provoca il toro con urla e gesti. In un sussulto d’impulso, il monolite si scatena. Il forcado non scappa, ma si prepara a ricevere la sua furia. Dietro di lui, in fila indiana, ci sono i suoi compagni, pronti a reggere l’esplosività della carica in un blocco prodigioso. L’ultimo della fila, o rabillador, afferra il toro per la coda, facendolo girare in circolo fino a quando, l’animale esausto si arrende. 

Tecnicamente questa è definita pega de caras. Un tempo l’immobilizzazione avveniva all’uscita del toro, la sorte de gaiola. Oggi, l’aumento del volume e della forza dei tori, ha mutato la pratica. Ad esclusione delle rare pega da cadeira, cioè col forcado da cara che attende la carica seduto su una sedia, l’immobilizzazione avviene in due modi con la pega de caras e con la pega de cernelha, la presa al garrese. 

Il forcado non è un nobile, non indossa i costumi aristocratici, appartiene al popolo e rappresenta il coraggio della gente comune che, senza alcuno strumento, riesce a vincere la forza bruta del toro fermandolo. Questo aspetto è marcato: mentre i cavaleiros si presentano coi loro nomi e come professionisti, cioè si guadagnano da vivere così, i forcados sono privi di sussiego, dilettanti organizzati in squadre che prendono il nome delle loro città.

La loro origine risale al Quattrocento e rimanda a quelle figure che, armate di lance, assistevano i cavalieri, fornendo loro le armi, e agli alabardieri posti a guardia della famiglia reale. Quelle lance però spesso finivano per danneggiare l’animale e ferirlo a morte, svilendo la corrida di ogni rilevanza, così sorsero delle compagnie di uomini appiedati, i monteiros da choca, che brandivano un forcone, un bastone a tre punte, e presidiavano l’accesso ai gradini dell’aristocrazia durante la corrida, per provare a frenare le cariche del toro verso il pubblico. Costoro andarono col tempo a costituire a Casa da Guarda, i protettori dei ricchi spettatori che accorrevano ad assistere alle corride. 

Sarebbero stati loro i protagonisti della moderna tourada. La proibizione di uccidere i tori nell’arena, stabilita dalla regina Maria II, infatti, conferì loro un ruolo chiave. I monteiros, divenuti moços de forcado, dopo l’esibizione del cavaliere, dovevano allontanare il toro dall’arena. L’azione prese le sembianze di un entusiasmante rituale di coraggio e cameratismo che affascinò il pubblico. Si radicò così la pratica dell’immobilizzazione dell’animale, la preziosa specificità della tauromachia in Portogallo. 

Nell’antica Olisipo, forse i tempi sono cambiati, ma la gente di Campo Pequeno ammicca e palpita, pulsa e avvampa. È la tourada

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