Il gesto di Morante

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Esattamente dieci anni fa, io e il mio amico Pietro Silvestrini detto “El Pana” ci buttammo sulle strade infuocate di Spagna a inseguire l’imprendibile mistero del toro. Fu un viaggio folle e rocambolesco che in parte è entrato in un racconto intitolato Mai (il nome di una donna più che l’avverbio con cui tutti facciamo i conti vivendo il nostro tempo), storia di tori, strade, sogni, amori, perdite, vino e mare pubblicato qualche anno dopo in eBook da Ponte alle Grazie. Durante quel viaggio – e fuori da Mai – El Pana propose di visitare uno degli allevamenti di tori più seri e antichi di Spagna: Prieto de la Cal. Cosa c’era di meglio di quegli animali di sangue Veragua per cercare qualcosa che la modernità sta perdendo e sfiorare dimensioni in cui spazio e tempo sono componenti che cambiano significato? Chiedemmo a quell’esperto torista italiano da tutti chiamato “Maestro” di intercedere per noi.

Il Maestro, un avvocato torinese eruditissimo, aveva allora un rapporto confidenziale con la Marchesa Mercedes Picón de Seoane, ossia la moglie di Tomás Prieto de la Cal y Dibildos che nel 1943 aveva dato inizio all’avventura dell’allevamento comprando capi che non avrebbe mai incrociato pur di mantenerne la purezza e tenere in vita la casta vazqueña. Dal 1975, anno di morte dell’allevatore, la Marchesa aveva accompagnato suo figlio, Tomás Prieto de la Cal y Picón, nella serietà e nella coerenza, anzi in quella nobile arroganza che è necessaria a sopravvivere quando si è unici e isolati, insomma nella barra dritta di una battaglia contro tutti e tutto per il toro duro, il toro serio, il toro che non fa sconti e che non cerca di compiacere pubblico, toreri, e compagnia cantante. Il cosiddetto “toro artista” che nelle ultime decadi ha dominato incontrastato, solo a vederlo pare ridicolo di fronte a quello che gli spagnoli chiamano “toro toro”, che è l’animale duro di pochissimi allevamenti ormai, uno dei quali è quello di Prieto de la Cal. La Marchesa aveva parole di fuoco contro i suoi nemici, ovvero contro tutto quel piccolo mondo commerciale che dominava – e ancora domina – incontrastato. Sapevamo tutto questo, El Pana e io. Così quando chiedemmo al Maestro di intercedere gli domandammo anche cosa potessimo portare in regalo alla temutissima Marchesa. “Ha un debole per i dolci” ci fu detto. Comprammo una scatola di cioccolatini e ci preparammo all’appuntamento.

“Di prima mattina” aveva detto al telefono il ganadero, Tomás Prieto de la Cal y Picón, dando indicazioni stradali. Così passammo la notte a Trigueros. Io riuscii a convincere El Pana che per quel giorno poteva evitare di fare l’alba. E alle prime luci del mattino ci presentammo ai cancelli della Finca. La Marchesa non c’era. Serissimo, l’allevatore ci accolse assieme ai suoi figli maschi, due ragazzini che non avevano dieci anni e lo accompagnavano nel lavoro fra i capi del bestiame. “Colazione dopo” ci disse con una certa austerità e io immaginai che il nostro aspetto non dovesse averlo colpito positivamente. È probabile che senza la parola del Maestro ci avrebbe lasciato alla porta. Ma ci prese su e iniziammo un giro straordinario fra i campi in cui gli dèi del sogno Veragua si aggiravano silenziosi.

Chi ha visitato almeno una volta in vita sua un allevamento di tori da corrida sa di cosa sto parlando. È un mondo difficile da immaginare tanta è la bellezza della natura incontaminata, degli animali che dominano questa natura come vere divinità, e degli uomini che questa natura e questa animalità rispettano a tal punto che vi si integrano, dando così vita a un tempo senza tempo. Ecco. Un tempo senza tempo era quello in cui eravamo entrati. I tori di Prieto de la Cal sono per la maggior parte quasi bianchi, un bianco sporco che però quasi brilla, meglio dire semplicemente jaboneros, usando il termine che coglie la sfumatura unica del loro manto. Hanno un aspetto inconfondibile. Una nobiltà che anche l’inesperto saprebbe cogliere immediatamente. La sicurezza dell’animale che è nato per dominare. La calma dell’intelligenza che terrorizza i toreri. L’allevatore guidava silenzioso attraversando i campi. Faceva parlare i suoi figli interrogandoli. “Chi è quel toro?” domandava all’uno. E quello rispondeva dicendone il numero, la nascita, la madre. “Come trovi il 110?” domandava all’altro indicando un animale che riposava all’ombra. E quello dava le sue spiegazioni e il padre assentiva o correggeva. I due ragazzini saltavano fra i campi quando era il momento di aprire passaggi e indicare spazi a noi invisibili. Il sole intanto saliva alto in cielo, i ronzii degli insetti si moltiplicavano, la calura si diffondeva in uno strato di aria quasi opaca e dopo un’ora abbondante tornammo alle sale padronali.

Nell’oscurità fresca dei saloni e dei corridoi, passammo fra le teste dei tori che avevano fatto sognare negli anni d’oro dell’allevamento, quando a sfidare i Prieto de la Cal era gente come Antonio Ordoñez e Dominguin, fra i grandi quadri a olio che ritraevano donne e uomini della famiglia, oltre a qualche generale, qualche politico e infine  approdammo nel salone dove il tavolo era apparecchiato per la colazione. Il nostro ospite ci indicò dove sedere, si mise al proprio posto e fece segno che la colazione poteva arrivare in tavola mentre lui si chinava a segnare numeri, vergare commenti e appuntare impressioni perché quel giro fra i suoi capi non restasse inutile. Passarono minuti eterni di silenzio. Di nuovo un tempo senza tempo. Si sentiva solo il suo pennino gracchiare furiosamente sui fogli. Infine Tomás Prieto de la Cal y Picón alzò la testa e cominciò a rispondere alle nostre domande, mentre aggrediva la colazione – essenziale e squisita.

Inutile dire qui quel che ci raccontò e che sostanzialmente è il grido di dolore e battaglia che tutti gli appassionati di tori lanciano da anni per salvare un mondo che è messo a rischio soprattutto dall’insipienza e la miopia di quelli che lo dominano e lo dissanguano, più che dagli antitaurini o dalle mode di un Occidente allo sbando. Ci sono parecchie interessanti interviste rintracciabili qua e là nel web.

Piuttosto, racconto tutto questo perché fra poco più di dieci giorni, il 7 agosto, al Puerto di Santa Maria, andrà in scena una corrida attesissima, che potrebbe rilanciare l’allevamento tanto messo ai margini in questi anni. Morante de la Puebla infatti ha deciso di sfidare sei tori di Prieto de la Cal suscitando stupore e meraviglia. Nessuna cosiddetta figura, in questi anni, ha il coraggio di affrontare animali pericolosissimi e per molti semplicemente terrorizzanti, nonché incapaci di permettere un successo aritstico fatto di lunghe faenas e ornamentali passi per il brivido del pubblico. Che un torero artista come Morante, da sempre abituato ai tori artisti del mercato, quest’anno si proponga per i Miura di Sevilla e per un’ encerrona d’altri tempi, è notizia sbalorditiva, che lascia sperare in nuovi orizzonti. Soprattutto in questi mesi così drammatici ovunque e addirittura deleteri e quasi omicidi – economicamente e socialmente – per la tauromachia.

Ma il punto è: cosa ha spinto Morante a un gesto simile? In uno dei suoi articoli precisi e chiari, Antonio Lorca ha ricordato le parole con cui il torero immaginava pochi mesi fa il futuro della tauromachia. “Bisogna guardare indietro, non avanti”. La nostalgia del passato sarebbe la spinta che accomuna Prieto de la Cal e Morante. In parte è vero. Ma in parte c’è altro. Qualcosa che spero di aver fatto brillare nel racconto di quella visita alla ganaderia dieci anni fa, in quel tempo senza tempo che ci accolse.

Sì, è vero, c’è il passato, c’è il ricordo, c’è la nostalgia e lo sguardo che rifiuta di cercare un futuro in cui il cambiamento sia edulcorazione, neutralizzazione dei sapori, annientamento delle sfide. Ma c’è altro. Una dimensione che ovunque l’essere umano può sfiorare e che in particolare nella tauromachia facilmente scintilla. Ossia quel tempo in cui il tempo è assente. In cui si esce dai tempi. Si abbandonano le epoche. E si entra in una sfera extratemporale (dunque non anacronistica) in cui la storia non è quella a cui siamo abituati. Perché non solo non c’è futuro ma non c’è neppure passato. È un eterno presente? Forse. Forse è ancora di più. L’immersione nel ciclo della natura tanto facile per chi nella natura abita davvero. In un ciclo che sfugge alle leggi lineari del tempo a cui siamo abituati. In cui dominano soltanto la vita e la morte e la grande sfida dell’essere umano, gettato nel mondo e condannato a fare i conti con la sua finitezza. Forse è questa la vera dimensione che ogni tanto sfioriamo e che ci spinge a dannarci in cause apparentemente perse. Come quella sublime e inattesa e piena di bellezza che andrà in scena al Puerto de Santa María. Ha ragione, allora, Prieto de la Cal a dire che non importa il suo esito. Non importa mai l’esito del gesto. Perché il gesto è fuori dalla storia. Fuori dal tempo. E non ha a che fare con le sue conseguenze. Esiste in quanto gesto. Breve, istantaneo, effimero. E proprio per questo eterno.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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