Una mattina a Palma del Río

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Secoli che volevo passare qualche ora a Palma del Río. Volevo vedere la casa dove nacque e passò gli anni d’infanzia Manuel Benítez detto El Cordobés, uno dei matadores più importanti del Novecento, che piaccia o meno. Volevo cercare quella specie di basso che ho negli occhi da quando lessi la prima volta il bestseller di Dominique Lapierre e Larry Collins che in Italia apparve con il titolo Alle cinque della sera e che purtroppo non è più ristampato come molti testi di argomento taurino messi al bando dall’animalismo imperante. Come se poi quel libro fosse davvero esclusivamente taurino. Il titolo originario, …ou tu porteras mon deuil, costituiva la seconda parte di una celebre frase che il Cordobés rivolgeva alla sorella da cui era stato cresciuto. “Stasera ti farò ricca, o porterai il lutto per me”. Un libro che è un affresco di Spagna, un racconto (semplice e appassionante – marchio di fabbrica degli autori) delle vicende che attraversò la Spagna dalla guerra civile in poi. Vicende raccontate attorno alla vita di questo torero sui generis, ragazzino rimasto orfano prestissimo e cresciuto dalla sorella Angelita prima che i tori lo portassero al trionfo.

Secoli che volevo trovare quella casetta a un piano, calce bianca nel sole, una porticciola di legno scheggiato, come mille altre dei paesini di Spagna che attraversiamo in macchina e amiamo e sogniamo, evidentemente ignari dell’enorme povertà che in quelle case dai pavimenti di terra si nascose con pudore e tenacia. Ma ogni volta ce n’era una. Costantina dietro l’angolo. Allevamenti. Altri ricordi. Córdoba da una parte, Sevilla dall’altra. E in mezzo un torero che oggi è ricordato più che altro per i due figli dal suo stesso nome, entrambi toreri, due carriere di scarsissimo richiamo se non fosse per il loro antagonismo, uno figlio riconosciuto biondino che non ricorda affatto il padre, l’altro invece identico al padre eppure figlio non riconosciuto. Niente da fare. C’era sempre altro da inseguire. E deviavo sempre. Lo farai un’altra volta – dicevo. Finché stamattina ho detto basta e finalmente sono entrato a Palma del Río. Non era in programma. Non ero preparato. Non sapevo nulla. Neppure un indirizzo in mano. Solo il ricordo di quel libro esaltante per me ragazzino senza internet in cerca di notizie su un mondo complicatissimo che dovevo assolutamente scoprire.

Il cielo ingrigiva. Il sole faceva su e giù. E io entravo a Palma del Río. Era quasi l’una. Traffico sulle vie principali. Strade bagnate da una piggia mattutina. Uomini seduti fuori dei bar. Guardavo qua e là. E intanto mi sorprendeva l’ordine, la pulizia e soprattutto la grandezza del centro che avevo sempre immaginato minuscolo. Poi una grande chiesa, una piazza, forse il cuore della cittadina. Ho parcheggiato e mi sono messo in cerca. C’era un chiosco antico di quelli che vendono giocattoli e leccornie per bambini e dietro la finestrella un vecchio. Sembrava perfetto chiedere a lui. Eppure il nome del torero non gli diceva nulla. El Cordobés? Mi guardava come se stessi nominando un fantasma. Eppure non era così difficile come mi è parso lì per lì. Dall’altra parte della piazza, su cui svetta il Monastero di San Francisco, c’è un bell’albergo di proprietà dei religiosi. Sono entrato, ho fatto la mia domanda e la ragazza della reception si è illuminata. “El Cordobés! È ancora vivo, lo sa? Ma non abita qui da tantissimo. La sua casa non lo so. Ma guardi”. Un gesto, aprendo la porta. “Vede là? Proprio in quella strada viveva la nonna, ma lui non so precisamente dove sia nato. Perché non va all’Ufficio del Turismo?” Ho guidato verso la piazza. Ho trovato il vero centro. Il Municipio. Aiuole curate. L’Uffcina del turismo sbarrata per pranzo. E un bar. I bar sono i luoghi migliori dove trovare quel che cerchi. La cameriera ha ripetuto EL Cordobés? Dove è nato? e una ragazza si è voltata. “Lo so io”, ha detto. “Mio nonno era suo amico”. Ha preso il telefono, ha gridato nella cornetta al nonno un po’ sordo. Ecco l’indirizzo: Calle Blas Infante 46. Si chiamava Monse, la ragazza. Quando vorrò sentire un po’ di storie dal nonno, sarà felice.

E così sono tornato esattamente nella via che indicava la donna alla reception dell’hotel di San Francisco. Ho suonato al 46 e due signore sono venute fuori entusiaste, pronte a spiegarmi che non era lì, ma dall’altra parte della strada, peccato che la casa non ci sia più: è stata buttata giù e rimpiazzata da un edificio moderno a due piani che vende cuscini, tappeti, tende e tappezzeria varia. Ma che importa? Le case erano tutte uguali. Un piano, un piccolo cortile oggi chiuso alle intemperie, galline che starnazzavano beccheggianti se le cose andavano bene. “E comunque perché non va al museo?” mi hanno detto. Che museo? “Ma il museo del Cordobés. Non lo sa? Ha aperto tre anni fa”.

Tre vie dietro l’angolo, in calle Ancha, il Museo dedicato a questo torero che fece epoca, destò scandalo, sovvertì le leggi della purezza pur di dare spettacolo e arrivò a guadagnare somme di denaro immense, è aperto dalle 15 di ogni giorno. Non si paga nulla. Cimeli, fotografie, cartelloni taurini e una serie di grandi quadri fotografici accompagnati da didascalie che affabulano vi porteranno nel mondo del Cordobés. Dalla sua infanzia di disperazione, piccoli furti, galera, fino al giorno in cui prese tutto, ossia nulla, per gettarsi sulle strade di una Spagna rurale e cercare fortuna con i tori. Le vicende epiche e quelle più prosaiche. La sfida del maletilla e quella dell’impresario che vide in lui un tesoro e lo lanciò nel mondo austero e severo dei tori come il ribelle solo di fronte a tutti i mali del mondo. El Pipo si chiamava il commerciante di mariscos che seguì Manolete eppoi rese famoso El Cordobés creando per lui lo slogan “Solo di fronte al pericolo”. Seguirete ogni cosa. Nel bene e nel male. Le rivoluzioni che gli aficionados mai digerirono e che invece resero folle il popolo. I miliardi e le storie da prima pagine. Life che gli dedicò tre copertine. Un torero capellone come un Beatle. Un torero amato dalle star, perfetto per i Kennedy.

C’è una foto che lo racconta meglio di ogni discussione. La potete vedere in questo pezzo che butto giù mentre ancora penso alla Palma del Río in cui finalmente sono entrato. Il torero è a Pamplona. Anno di grazia 1965. 13 giugno. Al termine della corrida, fra salti della rana, banderillas ridotte a matite, figure mai digerite dagli ortodossi, il pubblico della Plaza de Toros lo sommerge di fischi e i cuscini gettati contro il torero già milionario riempiono l’arena. Ma EL Cordobés non teme nessuno. Ha sfidato ben altre tragedie. Prende in mano la montera e mima un passo, un derechazo a piedi uniti, con cui torea i cuscini che cadono dagli spalti e beffa, nell’inganno sprezzante, tutto il pubblico rabbioso. Le urla si reduplicano e l’odio diventa famelico. Lui allora col sorriso sulle labbra riprende il proprio cammino e esce fiero, orgoglioso, pieno di un suo senso dell’onore che è in fondo ciò che lo rese unico. Si potrà dire di tutto circa l’arte che El Cordobés fraintese trasformandola in spettacolo. Ma non si può dire che mancasse di quella che viene chiamata vergüenza torera, quel rispetto di sé e del proprio ideale di vergogna che rende alcuni uomini capaci di superare il loro destino.

Uscendo dal Museo, la custode voleva sapere tutto di me e dell’Italia e della nostra passione. Si chiedeva come fosse possibile. Mi diceva che ormai anche lì, un Museo come quello, municipale, non può essere pubblicizzato sui siti pubblici. Il pericolo di essere chiamati assassini e di essere odiati e di suscitare le grida rabbiose. Che mondo è quello in cui gli ignoranti possono giudicare e linciare? Facevo segno di sì. Mi veniva un gran disgusto dentro. Essere ridotti a carbonari. Costretti a tacere una passione. Mi sono rimesso in macchina. Il cielo era plumbeo ormai e ricominciava a piovere. Le strade erano deserte. Uscendo da Palma del Río, pensavo alla fotografia. Toreare le grida rabbiose della maggioranza. Poco importa se a Pamplona i puristi avevano ragione a criticare il torero. Quel che importa è il nostro senso della vergogna. Quando sappiamo ciò di cui è giusto vergognarci e ciò di cui dunque dobbiamo essere fieri. A testa alta. Un passo torero di fronte a chi ci deride. Soprattutto nei tempi della democrazia del sondaggio. Dell’arena selvaggia dei social network. Un passo immagnario, con grande fierezza. Mi sono sentito bene. Finalmente. Altro che la casa di quel libro che voglio rileggere. C’era altro da trovare a Palma del Río.

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