L’anima del toro

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G. Calcagni, Tori, 1966 (photo M. Meschiari)

Perché guardiamo gli animali? Se lo chiedeva John Berger in un saggio del 1977, individuando una frattura nel XIX secolo, cioè agli inizi di quel processo sociale ed economico che è stato portato a compimento dal capitalismo e dalle multinazionali. Fino a quel momento, gli animali «occupavano insieme all’uomo il centro del suo universo». La dipendenza era ovviamente economica e produttiva, ma in epoca antica gli animali irruppero nell’immaginario umano «come messaggeri e come promesse». Erano “magici”, nel senso che, quando entravano in connessione con l’uomo, il rapporto che si instaurava tra i due non era di tipo ordinario. Paul Shepard parlava anche di «zoologia del sé», e con questo voleva dire due cose, che in senso evoluzionistico le facoltà cognitive umane si sono modellate pensando proprio animali, e che la nostra psicologia più profonda usa sempre gli animali come una specie di specchio imperfetto, per capire che cosa abbiamo nell’anima, e dove siamo.

Berger ne fa appunto una questione di sguardi: «Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessuna altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo». Quando l’uomo è visto dall’animale, dunque, l’uomo si “vede visto”, e crede che l’animale lo stia pensando come lui sta pensando l’animale. È accaduto qualcosa che non è “reale”, nel senso oggettivo del termine, ma di “magico”, in senso psicologico: «all’animale viene ascritto un potere paragonabile a quello dell’uomo». Si tratta ovviamente di un’attribuzione impropria, l’animale è solo se stesso, ma l’uomo ha bisogno di guardarlo così perché questo è il suo modo di comprendersi e di comprendere il mondo.

Che nome potremmo dare a questo modo di comprendere, a questa attribuzione impropria di senso? Gli antropologi parlano di “animismo”. L’animismo non è solo un mero prodotto del pensiero primitivo, qualcosa di esotico perduto in un’epoca lontana in cui la gente credeva che umani, animali, vegetali e minerali avessero un’anima. L’animismo è qualcosa di più profondo, di transculturale e transtorico, è una specie di modello cognitivo che ha aiutato e aiuta la nostra specie a capire le connessioni tra le cose, attraverso quello che potremmo definire un “pensiero magico”. In che modo? Per rispondere dobbiamo chiederci che cosa accade nel sistema “uomo-osservante/animale-osservato”. Un tratto comune della nostra specie è quello che scientificamente viene definito “metacognizione empatica”, cioè la capacità di immaginare nell’altro (uomo o animale) gli stessi stati mentali che siamo in grado di riconoscere in noi stessi. Di fronte a un animale reale, l’uomo comincia a instaurare una specie di relazione di intimità, a cui seguono delle domande: “chi sei? da dove vieni? che cosa pensi? come mi vedi?”. Inizia in altre parole un dialogo (che si sviluppa tutto nella mente dell’uomo) in cui l’animale è immaginato come dialogante. In questo processo accadono cose anche molto complesse: volizione, desiderio, emozione, pensiero, credenza, sapere, autocoscienza vengono attribuiti alla bestia per proprietà empatica, per analogia, per simmetria. E questo processo, più che un generico e automatico antropomorfismo, è appunto “animismo”.

L’animismo, presso vari popoli, può essere credenza, sistema di valori e cosmologia, ma per Homo sapiens è anzitutto un modo codificato di vedere, leggere e interpretare le relazioni tra umani e non-umani. L’uomo, ancor prima che le forme fisiche, tende ad antropomorfizzare i rapporti e i punti di vista. Ma il termine antropomorfismo è fuorviante, suggerisce che c’è in ballo una “forma” umana. L’animismo, in realtà, non conferisce forma umana ad animali, minerali e piante, ma attribuisce loro una personalità. E tutto questo accade in una specie di fiction mentale, una narrazione elementare o complessa, che va dal gioco del bambino all’invenzione dello scrittore e del poeta. E l’animale al quale si imputa un’anima, ancor prima che persona, è personaggio, è attore, a volte è co-autore del racconto. Si pensi ad esempio al marlin ne Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Immaginare per metacognizione empatica il punto di vista di un animale significa appunto questo: inserirlo in un grande racconto in cui la differenza tra umani e animali è sempre presente, ma in cui il ruolo di personaggi è condiviso alla pari.

Ora, chi ha dimestichezza con la corrida, avrà certamente riconosciuto in questo discorso un’aria di famiglia. Il torero che chiama il toro “hombre” non lo fa in ossequio a un’usanza, non usa una semplice metafora, ma si cala in una narrazione, e chiede allo spettatore di credere a un racconto. Sappiamo poi che il matador non si limita a questo, ma riconosce al toro una “personalità”, il che non significa solo un modo di essere, una natura, uno schema di comportamenti, ma qualcosa di più e di diverso, qualcosa che anche nel XXI secolo riattiva quel rapporto “magico” con l’animale di cui si è parlato fin qui.

Quello che accade, insomma, è che il torero vuole davanti a sé qualcosa di più di un semplice animale feroce e bellissimo, non si accontenta di un mero grumo di istinti e mosse e carattere, di un fascio di qualità oggettive e materiali. Il torero vuole davanti a sé una “persona non-umana”, e in modo anche solo silenzioso, attraverso gesti di rispetto, di sfida, di attenzione, ma soprattutto parlandogli, l’uomo sulla sabbia chiama il toro (e noi) in un flusso narrativo che ognuno, a seconda dell’indole, leggerà come mitico, epico, tragico, rituale. Si può scegliere. Quello che conta però, alla fine di tutto, è che laggiù non accade solo la morte di un animale, di una bestia, ma viene a mancare un fratello, un fratello ucciso da un fratello, un amico ucciso da un amico. Forse il più grande archetipo narrativo della nostra specie. Un archetipo che, nell’arena, torna reale, tangibile, corporeo, sullo sfondo di un Occidente polveroso e secolarizzato.

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